La Chiesa nel secolo XV

 

La fine del Concilio di Basilea può essere assunta come momento conclusivo di una lunga stagione della storia della Chiesa occidentale segnata sia dal confronto tra le pretese teocratiche della Santa Sede e l' autorità dei Principi nei territori che a loro facevano capo, sia dalla lunga controversia tra il pontefice e il concilio per la titolarità del superiore potere di giustizia. Con la conclusione dell' assise il papato riusciva a definirsi come massima autorità della Chiesa e ad affermare l'inappellabilità delle sue decisioni al concilio ecumenico; le istanze conciliariste uscivano dall'assemblea fortemente ridimensionate, ma non del tutto eliminate e negli anni successivi l'appello al concilio continuerà a essere visto in alcuni ambienti ecclesiastici come il mezzo più adatto a risolvere i problemi della Chiesa. Allo stesso tempo il papato aveva finito di rinunciare alle proprie aspirazioni teocratiche e per riconoscere ai principi territoriali ampia libertà di decisione in materia temporale, nonché il diritto di intervenire nell'ordinamento ecclesiastico e nella gestione dei benefici dei loro paesi.

La nuova stagione che si apriva alla Chiesa prendeva, dunque, le mosse dalla riconferma del primato pontificio (senza che però il conciliarismo si sopisse del tutto), dalla fine delle pretese teocratiche , dalla dialettica con i principi territoriali per le competenze giurisdizionali. Questo periodo si protrasse fino ai primi decenni del sec. XVI - quando le diffusioni delle idee di Lutero ruppe l'unità del cristianesimo occidentale e impose una profonda revisione teologica - e presenta numerosi aspetti, i più rilevanti dei quali appaiono la fioritura di nuove espressioni e correnti religiose che caratterizza soprattutto le comunità urbane, i complessi rapporti tra la religione e la gerarchia ecclesiastica da un canto e il mondo rurale dall'altro, l'assenza di una univoca politica ecclesiastica tendente a controllare e disciplinare le manifestazioni spontanee di una religiosità rinnovata o a diffondere  in maniera omogenea l'istruzione religiosa nelle campagne, i movimenti riformatori all'interno di numerosi Ordini religiosi diretti a restaurare la rigida osservanza della regola originaria - e perciò detti dell'"osservanza" -, le sensibili carenze che caratterizzano la gerarchia del clero secolare, le conseguenti aspirazioni a una riforma della Chiesa, l'incontro con la cultura umanistica che fornì, tra l'altro, ulteriori argomenti alle correnti riformatrici.

Una notevole varietà di espressioni caratterizza innanzi tutto la Chiesa nel periodo ora indicato. Si diffusero, in particolare, correnti di accentuato misticismo che il rapporto diretto tra il fedele e Cristo, l'interiorizzazione del messaggio evangelico anche a prescindere dalle pratiche devozionali fissate dalla gerarchia. A queste correnti appartiene l'esperienza di comunità religiose, come quella dei fratelli della vita comune, sorta nel 1381 a Deventer, nell'attuale Olanda, e la congregazione dei Canonici agostiniani di Wildesheim. Dette congregazioni riducevano all'essenziale le cerimonie liturgiche e rituali, svalutavano il significato della penitenza e praticavano una vita comunitaria assai semplice, imperniata sulla piena dedizione al lavoro e alla preghiera. Su questo Tronco fiorì la "devotio moderna" che si diffuse nel corso del sec. XV, soprattutto nell' Europa centro-settentrionale, e che predicava una vita modellata sull'assoluta fedeltà all'esempio di Cristo (testo fondamentale di questa corrente fu il "De Imitazione Christi" composto intorno al 1442 probabilmente da Tommaso da Kempis, Una meditazione individuale libera dalle regole della tradizione ecclesiastica, e monastica in particolare, l'indifferenza verso le sottigliezze della riflessione teologica, giudicata di poco momento rispetto all'effettiva dei precetti evangelici, l'interiorizzazione della spiritualità, lo studio della Rivelazione e dei testi della tradizione spirituale per arricchire l'esperienza intima della meditazione. Rispetto ai precedenti movimenti mistici, essa proponeva l'ascesi non già come elevazione alla divinità per perdersi in essa, ma come apertura del fedele a Dio per farlo vivere in sé ed essere da Lui guidati nella condotta quotidiana.

In una società fortemente segnata dalla religione iniziative e proposte numerose venivano dal mondo laico. La diffusione della "devotio moderna" costituisce un'espressione significativa del coinvolgimento dei laici nei movimenti religiosi: una diffusione anche italiana, come rivela l'iniziativa di alcuni nobili veneziani riunitisi nel convento di San Giorgio in Alga per vivere insieme in povertà e in  preghiera. Altra espressione parimenti importante è il ruolo sempre più rilevante delle confraternite. Queste, nel corso del sec. XV, accentueranno il radicamento nel territorio urbano, dove soprattutto operavano, e finirono con l'accrescere il proprio ruolo sociale, acquistando una funzione centrale nelle manifestazioni religiose e incrementando le forme del loro intervento assistenziale e caritativo. Nuove confraternite si affiancarono, poi, alle esistenti. Tra queste , l'Oratorio del Divino Amore, fondato nel 1497 a Genova, che si diffuse anche in altre città italiane, tra cui Roma. Gli Oratori, cui si deve la fondazione di orfanotrofi, ospedali per incurabili, case per convertire, istituzioni per condannati a morte, erano composti in prevalenza da laici e privilegiavano i contenuti sacramentali  e caritativi, rispetto a quelli penitenziali.

Il coinvolgimento religioso del mondo laico soprattutto nella città risulta confermato dalla  diffusa presenza delle fabbricerie, o fabbriche: organizzazioni di fedeli che si prendevano cura dell'edificio della loro parrocchia e ne curavano manutenzione e funzionamento. E trova un ulteriore, significativa manifestazione nell'enorme diffusione del culto dei santi. Accanto a quello del patrono della città, tradizionalmente venerato come espressione insostituibile dello stretto legame che vincolava a Dio la comunità urbana nel suo insieme, in molte regioni occidentali dalle tedesche alle italiane si diffuse il culto di altri santi, culto che nasceva da motivazioni devozionali private, ma anche dal desiderio di assegnare un patrono a gruppi professionali o a particolari categorie di cittadini, di individuare un protettore che difendesse da calamità e da malattie.

Il nuovo afflato spirituale, comunque, non era monopolio dei laici: anche il clero ordinario fu partecipe del generale movimento per una religiosità più intima e profonda. Significativo, sotto questo aspetto, fu il movimento dell'osservanza che a partire dalla fine del secolo XIV riguardò Ordini religiosi antichi (Benedettini, Agostiniani, Cistercensi) o recenti (Domenicani, Carmelitani, Francescani). Il successo del movimento dipese dalle relazioni tra l'Ordine da una parte e l'autorità vescovile e del principe territoriale dall'altra. In Italia l'intervento del vescovo fu in genere di scarso peso e non costituì un elemento rilevante in questo processo di riforma, mentre più importante fu il rapporto con l'autorità temporale. Così la Repubblica di Venezia sostenne il movimento, ma cercò di inserirlo nel progetto della fondazione di una Chiesa regionale; il duca milanese si mosse soprattutto per acquisire il controllo del movimento dell'osservanza anche al di fuori dei confini del Ducato; a Firenze il governo si limitò ad accogliere i movimenti di rinnovamento religioso nei monasteri presenti nel territorio. Dalle regioni dell'Italia centro settentrionale il movimento dell'osservanza si è sparse nell'Europa centro settentrionale;   L'Italia meridionale  rimase invece sostanzialmente estranea al fenomeno. In Germania il movimento convolse più che in Italia l'autorità episcopale, al punto che in alcune diocesi esso si innestò sulla politica di riforma dei costumi del clero promossa dal vescovo, e trovò l'appoggio dei principi che in genere ne  favorirono sensibilmente la realizzazione. Inoltre, alcuni principi ricevettero direttamente dal pontefice la concessione dello "ius reformandi" nei confronti degli Ordini dei loro territori: l'esercizio di tale diritto, però, sembra esser stato ispirato non tanto al rinnovamento della vita monastica, quanto al rafforzamento del ruolo del principe nel conferimento dei benefici ecclesiastici.

Di fronte alla ricca fioritura di correnti spirituali la gerarchia ecclesiastica appare, nel sec. XV, sostanzialmente immobile: incapace di inquadrare entro troppi schemi i movimenti e le iniziative nate spontaneamente tra i credenti e desiderosa di evitare qualsiasi coinvolgimento nei movimenti stessi.

L'ordinamento del clero secolare continuava ad avere al suo fondamento la parrocchia. Questa costituiva il centro della vita religiosa sia in città sia in campagna dove, peraltro, si affiancava ad altre istituzioni: così, nelle regioni centro settentrionali della penisola italiana  numerose erano le pievi, circoscrizioni ecclesiastiche nelle quali più sacerdoti vivevano collegialmente, mentre in quelle meridionali erano diffuse le cosiddette "chiese ricettizie", basate su un patrimonio usato in comune da un gruppo di sacerdoti cui mancava la responsabilità individuale della cura  d'anime. La parrocchia era affidata a un sacerdote per lo più proveniente dallo stesso ambiente sociale, se non dalla medesima comunità di fedeli, e quindi a essi legato da profondi vincoli di identità culturale e cetuale. Di tale comunità, il parroco condivideva tutti gli aspetti della vita. Nessuna istituzione ecclesiastica provvedeva alla istruzione e alla sua preparazione per il servizio pastorale cui era chiamato: per lo più addestrato da un sacerdote più anziano, ne rispecchiava il grado di cultura; né era sollecitato a perfezionarsi, dato che la sua missione era vista soprattutto all'interno della comunità dei parrocchiani e a questa doveva adeguarsi.

 La generalizzata scarsa preparazione religiosa e culturale dei parroci costituiva un serio ostacolo alla diffusione di un insegnamento che riflettesse l'ansia per una più ricca spiritualità vagheggiata da i movimenti di cui si è detto. Sotto questo profilo qualche contributo fu portato dagli Ordini, soprattutto quelli toccati dal movimento dell'osservanza, che in alcune regioni svolsero un ruolo di supplenza del ministero parrocchiale; in particolare, i Benedettini arrivarono ad assumere il  carico parrocchiale in alcune campagne italiane, mentre tra i Francescani e i Domenicani diveniva sempre più comune l'amministrazione dei Sacramenti compreso quello della Confessione. Ma questa supplenza non usciva a ovviare l'inadeguatezza del servizio parrocchiale: all'impreparazione dei sacerdoti si aggiungeva spesso la mancata residenza delle loro chiese derivante in genere dalla contemporanea titolarità di più benefici, imposta dalla povertà di ciascuno di loro.

Scarsa preparazione religiosa e mancata residenza nelle loro sedi si ritrovano, poi, frequentemente anche tra i vescovi. Anche se non mancarono - come la storiografia più recente sottolinea - vescovi profondamente consapevoli della loro missione e tenaci promotori di una riforma dei costumi e della spiritualità nelle loro diocesi, l'altro clero sembra conservare nel Quattrocento quella prevalenza di mondanità che lo aveva caratterizzato nei secoli precedenti. Appartenenti in genere alle grandi famiglie signorili, i vescovi non sempre avevano un'adeguata preparazione culturale, né si dedicavano con sufficiente impegno al loro compito pastorale: rare risultano  per lo più le visite alle comunità della loro diocesi, mentre la pluralità dei benefici di cui spesso erano titolari rendeva occasionale la loro presenza in ciascuna sede e imponeva il ricorso a vicari. E un'eccessiva mondanità assegnava anche i vertici sommi della gerarchia, i cardinali, spesso titolari di diocesi dalle quali erano perennemente assenti, e lo stesso pontefice, coinvolto nei tanti problemi politici del dominio temporale e dei rapporti con i principi e le autorità territoriali e circondato da una  Curia spesso più impegnata in affari secolari che attenta a questione spirituali.

Una tale condizione della gerarchia ecclesiastica non poteva non essere oggetto di attenzione critica da parte di laici e di chierici sensibili alle nuove distanze di spiritualità. Tale attenzione si espresse perlopiù in una richiesta di maggior partecipazione al  funzionamento delle istituzioni. Così, ad esempio, in Inghilterra si diffuse l'interesse laico per la carica di guardiano della Chiesa, che consentiva di seguire da vicino lo svolgimento del ministero pastorale dei parroci, mentre nell'Europa centrale si chiese di partecipare alla scelta dei sacerdoti con cura d'anime. È, questo, un aspetto rilevante del fenomeno che gli storici definiscono di "volgarizzazione" della Chiesa e che si espresse anche nella crescente domanda da parte dei ceti medio-bassi di un insegnamento religioso tra proposte in termini per loro accessibili. Ne è un esempio la diffusione delle indulgenze che la Chiesa presentava ora non più, come nei secoli passati, quale ricompensa per atti considerati eroici ed eccezionali, bensì come concessione disposta in relazione a comportamenti ordinari, che tutti i fedeli potevano tenere.

L'attenzione dei fedeli alla realtà della Chiesa quattrocentesca si manifestò anche nella richiesta di una profonda riforma. Fino a pochi decenni fa, anzi, la storiografia tendeva a leggere tutte le espressioni spirituali delle sec. XV come altrettanti aspetti di un movimento  volto alla rigenerazione della Chiesa, alla radicale trasformazione dei costumi e della vita degli ecclesiastici, un movimento che avrebbe trovato piena attuazione nel secolo successivo quando costituì il ricco filone della riforma cattolica che affiancò il momento repressivo diretto alla tutela della confessione cattolica contro le altre religioni e costituì parte integrante della Chiesa post Concilio di Trento. Studi recenti hanno ridimensionato tale interpretazione, sottolineando l'impossibilità di ridurre la complessità delle correnti spirituali quattrocentesche al solo indirizzo di riforma  dell'ordinamento ecclesiastico. In proposito sembra si possa ritenere innegabile l'intreccio tra le stanze riformatrici e la fioritura spirituale delle Quattrocento, dato che le prime si sostanziarono della seconda e che da essa trassero linfa e motivazioni; sembra però anche evidente che la seconda non si esaurì nella richiesta di cambiamenti nella gerarchia e di rigenerazione dei costumi ed espresse una religiosità per più versi originale e profondamente acuta.

Il tema della riforma risulta ricorrente nella Chiesa del secolo XV, ma non presenta un significativo univoco. Di riforma parlavano i movimenti dell'osservanza, di cui si è detto prima, che stigmatizzavano il lassismo spirituale e morale diffuso nella vita cenobitica e sollecitavano il ritorno al rigoroso rispetto della regola originaria. Di riforma parlavano anche alcuni pontefici, ma riducevano il tema a una questione eminentemente amministrativa dato che i loro programmi riguardavano soprattutto la riorganizzazione degli uffici curiali e il miglioramento dell'efficienza del governo papale. Particolarmente impegnati nella riforma curiale furono Pio II - che formulò il primo ampio programma di riordino della Curia, ispirato a un rafforzamento dell'autorità pontificia, nella bolla "Pastor aeternus", stesa nell'estate del 1464, ma mai promulgata -, Sisto IV - che, dopo aver denunciato nella bolla "Quoniam regnantium" cura gli abusi correnti nel governo curiale, elaborò un vasto progetto di trasformazione della "familia" pontificia, mai  tradotto, però, in un testo definitivo -, e Alessandro VI il quale nel 1497 nominò una commissione per la riforma degli uffici curiali, che riprese il progetto Sistino senza, comunque ottenere la promulgazione di una bolla. Di riforma in senso sostanziale ugualmente parlavano anche alcuni alti prelati, i quali sollecitavano il pontefice a mettere mano con urgenza al riordino dei gli uffici curiali, evidenziando l'inadeguatezza dell'ordinamento ecclesiastico a svolgere la propria missione spirituale. Significativi in proposito sono gli "Advisamenta super reformatione Papae et Romanae Curiae" del cardinale Domenico Capranica e il "Tractatus de Reformationibus Romanae Ecclesiae" del vescovo di Torcello e protonotaro apostolico Domenico De'Dominichi.